A Cristina
Conversazione intima con Cristina Campo
“La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è che noi siamo potenti al di là di ogni misura. È la nostra Luce, non il nostro buio, ciò che più ci spaventa. Ci domandiamo: chi sono io per esser brillante, splendido, pieno di talento, favoloso? In realtà chi sei tu per non esserlo? Tu sei un figlio dell’universo. Farti piccolo non serve al Mondo. Non vi è nulla di illuminante nel restringersi in modo che gli altri intorno a te non si sentano insicuri. Noi siamo fatti per rendere manifesta la gloria dell’Universo che è in noi. Non solo in alcuni di noi, è in ognuno di noi. Facendo brillare la nostra Luce, inconsciamente diamo agli altri il permesso di fare lo stesso. Mentre noi ci liberiamo della nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.” [Marianne Williamson, A Return to Love: Reflections on the Principles of a Course in Miracles].
Albore, distillato di un persistente cercare che mai trova posa se non in sé stesso: “La fede cerca l’intelligenza trova. Si cerca perché sia più dolce il trovare e si trova perché sia più intenso il cercare. [S. Agostino – De trinitate]”. Talora la solitudine può vestir l’abito dello sconforto, talora infondere orgoglio d’alterigia e nei momenti più solenni far percepire una imperscrutabile sincronia con il respiro del tempo, ma, nella quiete di pochi attimi sospesi, come posati nel palmo della mano di Dio qual verone affacciato alla magnificenza dell’universo intiero, si sta, in piena e totale comunione con ogni anima estatica che a tale fonte anela e si abbevera.
Ho proceduto in silenzio, senza di te e quando il fiorire di un’artista che mi è vicina nel suo percorso di maturazione e determinazione scandito dal ritratto, mia sorella, mi ha condotto alla tua luce, inattesa, ineffabile, mi hai pervaso e cuore e mente, eppure eri con me nella trama del tempo, dalla notte dei tempi, tu imperdonabile ancella del mistero.
Imperdonabile: Aristocratica visione, ma come sperare di accedere a tanto, senza farsi cogliere dallo sgomento per l’immane impresa, per la costanza che l’attenzione impone, per l’altezza cui assurgere per sfiorare la perfezione, per il distacco che la sprezzatura sottende? Come aspirare ad essere tra gli Aristòs, i migliori, così che la nostra paura, la nostra pigrizia, non ci inducano a tacciare come Imperdonabile chi al contrario ci può essere mentore e redentore dalla mediocrità aiutandoci ad assecondare il nostro destino? Eppure non è difficile cadere nell’errore, inciampare nella propria pigrizia. Già Sant’Agostino ci metteva in guardia da noi stessi: “Talvolta chi è troppo perverso d'animo teme di capire, per non essere costretto a mettere in pratica ciò che può avere capito.” [Serm.]
Ma ecco la chiave: destino. Nel mio intimo non è passivo aspettare imperscrutabili eventi nello sconforto dell’abbandono bensì fiducia in sé, “esseri potenti al di là di ogni misura”, partecipi in quanto parte viva e cosciente del mistero, libera adesione dell’uomo alla sua natura. Quindi un dovere verso sé stessi, un’impresa che non può essere impossibile in quanto impressa nella propria essenza, ardua, impervia, ma non impossibile e soprattutto necessaria a sé stessi. Da attuarsi secondando la propria natura.
Da quando mia sorella ha mosso i primi passi sulla via dell’arte nel Liceo Artistico della nostra città, inizialmente senza alcuna consapevolezza, guidata dalla curiosità, dalla voglia di indagare, ma senza comprendere, lasciando scorrere le immagini e soffermandosi quasi a caso su alcune senza apparente motivo, già definiva ritratto anche la rappresentazione di una mano, ma senza assurgere ad una visione di ciò che chiamava ritratto.
Ora gli studi, la riflessione, il tempo, l’attesa qual fuoco di fucina stanno separando nel crogiolo dell’animo la scoria del fantastico e dell’immaginifico permettendo di addentrarci nella realtà alla ricerca del mistero. Non posso sapere ove mi porterà questo percorso, ma a differenza tua Cristina non riesco o non voglio assurgere ad uno stato di aristocrazia. Sarà immaturità o una diversa visione ma per essere vivo ho bisogno di credere all’uomo, ho bisogno di credere in me, ho bisogno di sentirmi parte di una umanità, forse imperfetta, immatura, ma in cammino con me, ho bisogno di fiducia, o almeno di credere in essa, altrimenti non ho scopo, non esisto.
Quindi io credo che tutti seppur inconsapevolmente abitiamo l’altro lato del tappeto, di più, ne siamo parte viva e ne possiamo essere la coscienza determinatrice. Quindi con fiducia, “mi fermo, medito, osservo, fermo il tempo, creo una bolla nello spazio-tempo della vita che fugge correndo, scavo negli occhi di ogni singolo, per sfiorarne l’anima e intessere un muto dialogo di profonde condivisioni che avvicinandomi genera l’impulso, la spinta ad un nuovo approccio sociale più condiviso, meno uniformante, più valorizzante dell’unicità ineluttabile e preziosa del singolo. Una società nuova riscoperta, non più cloni silenti con fiacche radici affondanti in un umus comune, bensì unicità consapevoli che risorgono dal silente dialogo degli es intreccianti in un muto dialogo e cooperano riscoprendo la fratellanza-sinergica della propria unicità”.
Sia chiaro, anch’io non credo che la grandezza di un artista derivi dal suo impegno negli eventi socioculturali del suo tempo e sono convinto che la tecnica debba essere l’inarrivabile strumento di ogni artista, ma confido che sia il viatico per il conseguimento di un comune traguardo, per quanto solo traguardabile, ma avvicinabile per essere sempre più aderenti a sé stessi: “Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere sé stesso? E dove sarebbe quanto di sé stesso non comprende? Fuori di sé stesso anziché in sé stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano sé stessi. [S. Agostino – Confessioni]”
Ed io non voglio trascurare me stesso e nessun uomo in cammino con me. Voglio immergermi nella realtà giungere ad aderire con tutto me stesso al mistero; ma come? Il quotidiano è per me manifestazione dell’eternità, pensiero in essere. Quindi anch’io osservo ed attendo: “Uno sguardo, un’espressione, un gesto sfuggito al controllo del clone conforme e uniforme svela un’incrinatura infinitesimale e fugace, mostra una via per ingannare ed eludere le barriere-difese e scoprire il giardino segreto dell’es. Non avveduto si discopre, ignaro comunica, immobile attrae e nell’immobilità alienante della maschera-clone sfioro con le mie le sue inconsapevoli radici e intesso un muto dialogo, estendo un intreccio di silenti relazioni sinergiche e ritrovo il respiro dell’anima, l’afflato leggero che sospingendomi a sfiorare l’altro mi apre alla condivisione- comunione e il mio stesso es, in un istante eterno sospeso nel tempo, mi si disvela mentre furtiva rapisco un istante di pura verità ad un’anima ignara e lo porto con me e non mi è più estranea, aliena, non più clone."
Cos’è dunque codesta attesa? Attendere, nel suo significato transitivo è sì aspettare ed anche ascoltare attentamente, ma per il mio animo non è certo tempo vuoto, morto, immobilità nel tempo che scorre, nel mio animo è manifestazione fisica dello spirito del tempo nel quale aspiro ad essere anch’io pura attenzione, e così sospeso nel tempo senza tempo attendo all’opra mia e cerco di definirne i contorni, lo scopo, cerco di definirla definendomi.
Mi hai mostrato che possiamo essere mediatori tra uomo e uomo, tra uomo e natura e tra uomo e sé stesso e così la mia opra mi pare possa essere di portare a coscienza il mistero nel quotidiano, facendo dell’opra mia quale un ponte di cristallo, tra i lati del tappeto, che se di forma pura e netta e nuda possa essere strumento di rifrazione e diffrazione e comunicare il mistero: da una sola opera di adamantino rigore, da infiniti sguardi, infiniti colori e un solo mistero che si comunica, pervade, accomuna, affratella.
Mi dai grande conforto mostrandomi come nella sospensione del tempo non siamo soli. Anche nel ritratto, “Una concatenazione, quasi un avvicendamento continuo di immagini si dipana attraverso la storia dell’umanità, un’elica di DNA viva che si avvolge su sé stessa aprendoci al dialogo con noi stessi in quanto umanità vivente e vissuta e ci apre alla comunicazione del nostro essere, unici e irripetibili monadi di una complessa umanità interagente. Il ritratto nutre sé stesso tramite gli artisti che a tale fonte si abbeverano e tale sorgente alimentano. Il ritratto, diafana ed adimensionale entità permeante della storia dell’umanità disgiunge, connette, trasmette, conduce, svela, cela, interroga, sospende e sospinge. Il ritratto nasce dall’essenza stessa di umanità che ci anima e da questa, trascorrendo attraverso la nudità espressiva dell’artista, giunge alla forma artistica trasferendovi i moti, le pulsioni, i colori, le ombre, i vissuti, le attese, le sfumature, le certezze e i chiaroscuri di questi.” Contemporanea dei neolitici e di chi ci seguirà, ho sostato confrontando così che “attraversata da questo «flumen vultÅum» lo lasci anch’io tracimare trasportando il mio es abscondito e così, anche per la mia piccolezza in cammino tra molti grandi, il ritratto continuerà ad accompagnare l’uomo nel suo cammino attraverso la storia, nel suo continuo dialogo con sé stesso, alla ricerca di sé stesso.”
L’arte e il ritratto sono per me ciò che tu affermi: “Incandescenti, attraversiamo i muri”. Questa prassi di osmosi mi permea e mi sospinge e mi fa superare l’alterità ed il mio intimo desiderio è che l’arte, il ritratto siano stimolo a ciò per “ogni singolo uomo che lo abbia realizzato, che vi sia stato effigiato e che vi si sia confrontato”. “Attraverso il ritratto si può e si deve raggiungere l’artista nella sua intima nudità espressiva e in questo il ritratto rappresenta più che un portale, uno squarcio, un varco. Come muovere i primi passi verso il borbogliare d’un rio ascoso non è possibile senza affondare i sensi acuiti in ogni minuto dettaglio che ci possa guidare, così l’approccio ad un ritratto ci immerge nello stimmung creato dall’artista affinché ci significhi o ci inviti a vestire di significato quel mondo ritratto. Come passare sotto il velo d’acqua di una cascata per giungere all’antro che dietro vi si cela e vi si affaccia è impossibile senza bagnarsi dell’acqua che tale speco ha creato, così varcare i mondi che un ritratto congiunge e disgiunge è impossibile senza permearsi dello spirito, dello slancio, dell’ardore che all’artista ha dato forma e sostanza.”
Ancora devo indagare, interrogare, progredire: perché questa volontà che mi sospinge, dov’è questo mistero che mi attrae, cos’è questo spirito che mi pervade, come cogliere questa realtà di cui son parte? Voglio partire da qui:
“Tutto ha un senso. Tutto ha una duplice virtù d’impressione; esteriore l’una ... quella di coloro che guardano il di fuori, che solo studiano e criticano la veste filologica e storica dei libri santi, quella che nel discorso biblico si chiama la «lettera», preziosa e necessaria cosa; ma opaca per chi ad essa si ferma, capace anche di infondere illusione ed orgoglio di scienza a chi non osserva con occhio limpido, con animo umile, con intenzione buona, con preghiera interiore l’aspetto fenomenico del Vangelo, il quale concede la sua impressione interiore, cioè la rivelazione della verità, della realtà, ch’esso insieme presenta e racchiude, solo a chi si mette nella fase della luce, la fase risultante dalla rettitudine dello spirito, cioè del pensiero e del cuore, condizione soggettiva, umana, che ciascuno dovrebbe dare a sé stesso, e risultante insieme dall’imponderabile, libera, gratuita folgorazione della grazia, la quale, per il mistero di misericordia che regge le sorti dell’umanità, non manca; a date ore, in date forme, no, non manca ad ogni uomo di buona volontà. Questo è lo «spirito»”[Papa Paolo VI pellegrino a Nazaret]
ma con più fiducia, attendendo al mio destino, con te al mio fianco, perché come mai avrei potuto immaginare o sperare con infinita delicata profondità mi hai accarezzata l’anima e mi hai trasmesso il desiderio di posare “la guancia nel tuo palmo”.
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